di Ingeborg Robles
1. I luoghi della letteratura
Non esiste letteratura senza geografia. Un autore che scrive un libro sta seduto davanti a una scrivania, o sta in piedi davanti a uno scrittoio, o sta accoccolato sul divano, o sul letto, con il computer sulle ginocchia o cammina mentre compone le parole nella sua testa – comunque sia, sta in un posto, sempre in una località specifica, che può essere il paese dove abita oppure un locus di transito, un viaggio, una fuga, una transizione. E se scrive nel paese dove abita, non vuol dire che è nato in questo paese o che i suoi genitori lo sono.
Poi scriverà qualcosa: su che cosa? Sul suo paese? Un altro paese? Su persone di che mondo? Su gesti vicini a quale frontiera?
E gli autori che inevitabilmente vorrà imitare, che lo guidano mentre scrive, da dove vengono loro? Che lingua parlano?
Questo riguarda la scrittura, l’atto, il processo di scrivere, movimento fluido e dinamico, un movimento che traccia un cammino, una linea, quasi senza respiro, con il pericolo di lasciar tracce che sono le proprie tracce e allo stesso tempo non lo sono, perché c’è un’anima in noi che è l’incrocio fra la nostra voce e mucchietti di terra proveniente da non si sa dove, da ogni angolo della terra, da lontano. E queste tracce vengono create e lasciate per chi ci è sconosciuto, non l’altro, ma proprio lo sconosciuto, l’uomo o la donna del futuro, anche se può essere un futuro vicinissimo, domani, questa sera, sì qualcuno viene e mi legge questa sera. O ora.
Ma da dove verrà, che lingua parlerà il mio lettore?
Allora il lettore. Anche lui è in un posto specifico, legge seduto in salotto, legge in treno, guarda dalla finestra ogni tanto. Lui, lei, che nazionalità avrà? La stessa dell’autore che sta leggendo? O viene da un paese diverso rispetto dall’autore, ma vicino o lontano? Si capiranno?
Forse non è greco, né colui che sta leggendo, né colui che ha scritto il libro. Ma forse il posto dove le parole sono state scritte da una mano e colte dagli occhi di un altro, lo sconosciuto, è illuminato dalla luce abbagliante del Peloponneso, forse la pagina del libro in questo momento viene quasi annullata dal sole accecante di un’isola greca: perché qui si trova il nostro lettore, in vacanza, sulla spiaggia, davanti al mare, e non importa se il libro è di carta o elettronico, la relazione rimane la stessa, la relazione dinamica i fra tanti luoghi che costituiscono sia l’identità del lettore e dello scrittore sia l’atto di leggere.
2. L’intreccio dei luoghi: un esempio
Lo scrittore Roberto Bolano, scrittore di nazionalità ambigua, nato in Cile, cresciuto in Messico, esiliato in Spagna, si definisce così:
“… a me non importa se mi dicono che sono cileno, anche se alcuni colleghi cileni preferiscono considerarmi messicano, anche se alcuni colleghi messicani preferiscono vedermi come spagnolo… e non mi importa se mi vedono come spagnolo, anche se alcuni colleghi spagnoli gridano che sono venezuelano, nato a Caracas o Bogotá, qualcosa che nemmeno mi dispiace, al contrario. Ciò che è certo è che sono cileno e anche tante altre cose.”
Bolano, allora, racconta una sua esperienza a Ginevra. In questa città svizzera va al cimitero e cerca la sepoltura di Borges. “E quando finalmente mi trovo davanti alla tomba di Borges, non c’è nessuno nei dintorni. Penso a Calderón, penso ai romantici inglesi, penso a come è strana la vita. E più tardi mi siedo su una panchina davanti alla tomba e un corvo dice qualcosa: un corvo! Come se invece di essere a Ginevra, fossimo in una poesia di Poe...”
Qui si vede come attraverso la letteratura un luogo, anche un luogo chiuso, cupo, rivolto solo verso il passato, come un cimitero, possa aprirsi e diventare luogo di incrocio, di voci in lingue diverse, di continenti lontani. Certo, rimaniamo sempre nel “Western World”, nel mondo occidentale. Incontriamo romantici inglesi, Borges, Poe, Calderón, autori dunque che formano parte del “Western Canon”, del canone occidentale.
Sarebbe ancora meglio se, per esempio, camminando per le vie di Firenze ci venisse in mente non solo Dante, non solo l’inglese John Ruskin e le sue “Mattinate fiorentine”, o lo svizzero Jacob Burckhardt con i suoi eccellenti studi sul Rinascimento, ma se nelle strade anguste, fra la pietra massiccia dei palazzi storici, recitassimo la poesia di un poeta del Mozambico, scritta in portoghese per la storia del suo paese, questo paese che confina con l’Oceano Indiano, paese nel sudest dell’Africa e sotto il dominio del Portogallo per quasi 5 secoli. Questa storia particolare il poeta di cui vi sto parlando la porta nel suo nome. Si chiama Eugenio Lisboa e ha scritto questi versi su Firenze:
A Firenze, gli dei vanno per strada.
Diventano, diciamo, abituali.
O noi diventiamo meno umani
e la nostra statura uguale a loro.
Vivono con noi e parlano di sé.
Si svestono della loro morte di pietra,
rifanno la vita, senz’alibi.
C’è in loro un’allegria che cresce,
s’inerpica, irradia e dà luce.
Sono dei, a Firenze, come noi.
Prima d’andare là, cieco, supposi
che gli dei vivessero soli:
Isolati, là, nella loro grandezza,
inaccessibili, freddi e immobili.
Che sorpresa, pertanto, la mia,
vederli, tra noi, risuscitati.
Io personalmente so poco del Mozambico. Potrei certamente studiare la sua storia, la geografia, la situazione politica ecc. Ma rimarrebbe piuttosto sul livello teorico, non mi coinvolgerebbe emozionalmente, non entrerei davvero in un luogo straniero, non ci sarebbe nessuna immedesimazione.
Invece leggendo questi versi capisco intuitivamente qualcosa su questo poeta di cui so appena dove è nato e quando, non so nemmeno se è nero o bianco, ma so che viene da lontano, dall’Africa come ogni giorno tanti immigrati, e capisco o penso di capire o intuire attraverso la sua poesia come ha vissuto lui la sua esperienza a Firenze. Certamente non posso misurare tutta la sua esperienza, le sue impressioni, il suo sguardo impregnato da tutti i dati della sua vita personale e storica, vissuta in un paese, in un continente molto diverso dal mio; comunque lo vedo, questo straniero, straniero come me qui a Firenze, ma non europeo come me, sento come lui gli dei che li credeva soli, isolati, per poi ritrovarli qui, nelle strade di questa città, fra noi e noi fra loro, grazie alla mediazione di Firenze, che risulta anche una mediazione fra me e una persona nata nel Mozambico perché sia nell’esperienza – anch’essa intuitiva – di Firenze che nell’interrogarsi sul rapporto fra uomini e dei noi ci ritroviamo.
Non dobbiamo dimenticare, però, che questo, come credo, non basterebbe, sarebbe comunque, dovrebbe comunque essere solo il primo passo. Il primo passo che consiste nel fatto che io non chiudo la mia esperienza di Firenze nella prospettiva solo europea, permettendomi invece di includere altri sguardi e voci, al di fuori del mondo culturale che la mia educazione europea mi ha fornito.
Ancora parte del primo passo, direi, fa il vedere, capire, sentire che c’è qualcosa che ci accomuna. È un atto di inclusione, penso.
Il problema, però, rimane che comunque non posso essere sicura di come la vede lui, Eugenio Lisboa. Se lui si vede incluso da me oppure oscurato, se si vede visto da me, riconosciuto oppure falsificato, alterato, piegato sotto una mia idea.
Forse lui potrebbe, con molto diritto, chiedermi: “Conosci me, la mia realtà?”, come canta Lucio Battisti. Dopo parlerò di questo, cosa ancora si dovrebbe fare, degli altri passi da fare.
Adesso, per un attimo, vorrei tornare a quel cimitero svizzero dove una volta si trovava Bolano e sulla questione della lettura, dei luoghi intrecciati e della specificità di ognun luogo. Dopo aver visto la tomba di Borges, racconta Bolano, aveva ancora voglia di camminare e di vedere altre tombe, sperava di forse trovare quella di Calvino.
Forse per voi, lettori italiani, in questa frase non c’è niente di sorprendente: il cimitero svizzero di Ginevra, la tomba di Calvino, finalmente l’abbiamo, la chiusura nazionale, l’unità, la semplicità – questa semplice unità che il nazionalismo degli ultimi due secoli ha voluto costruire come norma e natura, ma che invece è l’eccezione.
Per me, tedesca, che leggo Bolano in spagnolo, sentire che sta cercando la tomba di Calvino, è motivo di sorpresa. Ma che diavolo ci fa Calvino in un cimitero svizzero. Anche se è vero che ha scritto un libro intitolato “Le “città invisibili”, non vuol dire che in questa invisibilità si possono trasformare le città e i cimiteri l’uno nell’altro o che in un angolo del cimitero ginevrino invisibilmente potrebbero sorgere Castiglion della Pescaia e la tomba di Italo Calvino. Avrete capito che per me, tedesca, quando sento il nome di Calvino penso subito a Italo Calvino, e ci mi vuole un attimo, di sorpresa e quasi di spavento, prima di capire che tutto è rimasto nella realtà: Bolano, uomo ragionevole e colto, sta logicamente cercando la tomba di Calvin, come sono abituata a chiamare e sentir chiamate il teologo svizzero. Ho sbagliato, ho frainteso – ma allo stesso tempo, quando mi viene in mente che Italo Calvino ha scritto un racconto “Ultimo viene il corvo”, mi rendo conto che, sì, anche lui, scrittore italiano nato a Cuba, è qui, nel cimitero svizzero con noi, con Bolano e me, con i corvi che gridano vicino alle tombe, con Edgar Allan Poe e il suo racconto più famoso “Il corvo”, con Borges, scrittore argentino tanto influenzato da Poe.
Già che siamo in Svizzera vorrei parlare di un altro esempio: non si tratta tanto di un intreccio di luoghi, ma di un trasferimento di un testo da un luogo specifico a un altro luogo, lontano e molto diverso.
3. Specificità e universalità nella letteratura
A) Universalità
Parlerò prima dell’universalità nella letteratura.
Diciamo che la Svizzera è già un paese abbastanza specifico e Dürrenmatt uno scrittore molto svizzero e tutti i suoi testi riflettono una realtà molto svizzera – da un lato. Dall’altro lato, come ogni testo, come ogni realtà, ci sono sempre tratti, aspetti che sono eredità ed esperienza comune di tutte le civiltà. Ed è questo che Edward Said definisce come “umanismo”, il sentire di aver qualcosa in comune con altri pensatori, altre società e culture, con altri tempi storici. Questo lato universale in ogni testo permette poi di prelevare una storia da un contesto specifico e di inserirla in un contesto totalmente diverso. E, almeno, al primo sguardo, quale paese potrebbe essere più diverso dalla Svizzera che il Senegal?
Il regista Senegalese Djibril Diop Mambety, quando cominciò a girare il suo film “Iene”, si rese conto che doveva assolutamente trovare una figura, un personaggio, una ragazza della sua infanzia, una bambina africana. Alla fine la trova. Dove? In un dramma di Dürrenmatt, nella “Visita della Vecchia Signora”. Il film “Iene” diventò poi appunto un adattamento della “Vecchia Signora”, la storia svizzera trapiantata in un contesto africano. “Ho avuto il coraggio di sposare il testo con il mio film e fare la sua storia la mia”, dice Mambety. Per lui era una questione di libertà, la libertà di costruire immagini dal fondo del cuore. E in queste immagini, secondo Mambety, non c’è più spazio per le peculiarità etniche. Per lui esiste un patrimonio della mente, che non deve essere tagliato in pezzi e frammenti. E, guardano “Iene” con il suo paesaggio africano, il caldo e la polvere del Sahel, gli elefanti nel deserto, le relazioni fra la gente in un povero villaggio africano, non credo che a nessuno, se non lo sapesse già, potrebbe venire in mente che originalmente si trattava di una storia svizzera.
Come altro esempio vorrei parlare dello scrittore albanese Ismail Kadaré e della sua relazione con Dante. Per lui, come nell’inferno dantesco ci sono i cerchi, così anche il testo stesso forma i suoi cerchi intorno a sé, afferrando, includendo sempre più luoghi e abitanti e lingue, fino a includere il mondo intero, tanto che nessuno, volente o nolente, può esimersi dall’avere un rapporto con Dante, e questi rapporti formano un tessuto invisibile fra noi. Kadaré racconta poi la storia della relazione fra l’Albania e Dante, come l’inclusione del piccolo paese balcanico nella monarchia italiana fece conoscere il poeta Dante agli albanesi, e come Dante, ma anche Amleto di Shakespeare e Don Quijote di Cervantes divennero lo specchio per riflettere i propri tormenti. Kadaré cita lo studioso albanese Ernest Koliqui che aveva visto la storia albanese dei suoi tempi, cioè gli anni 30, attraverso la Commedia Divina, trovandovi molte analogie.
Per Kadaré l’inferno di Dante non solo più rispecchiare la storia specifica albanese, ma anche la storia dell’emigrazione. Gli abitanti dell’inferno sono pieni di pensieri e nostalgie, si ricordano costantemente di un altro mondo, della vita lasciata sulla terra. Dice Kadaré: “Non c’è niente che assomigli di più, nella sua essenza, ai racconti dell’umanità sull’immigrazione dei paesaggi descritti nell’inferno e nel purgatorio. Gli abitanti dell’inferno sono stranamente vicini ai migranti, inclusi quelli di oggi. Gli sfoghi, la rabbia, le notizie politiche dai due lati, la sete di informazioni… Il lettore di oggi avrà difficoltà a distinguere il testo di Dante dalle cronache dei nostri giorni.” E poi Ismail Kadaré chiude questo suo parafo con la domanda: “Cosa succede a Tirana, chi ha vinto le elezioni, i guelfi oppure i ghibellini?”
L’inferno dantesco – radicato in una storia fiorentina, connesso a un amore, quello di Dante per Beatrice, nato nei vicoli fiorentini, e alla disperazione per un esilio da Firenze mai revocato, scritto in un italiano popolare, in fiorentino – esiste poi ovunque nello spazio e nel tempo, diventa la storia dell’immigrazione, delle colonie penali, dei Lager e dei Gulag.
B. Specificità
Sarebbe però sbagliato pensare che questa universalità, questa enorme potenzialità di suggerire analogie, questa possibilità per un testo letterario di rinascere in situazioni, contesti, lingue completamente diversi scaturisca soltanto da una generica universalità di sentimenti o temi. Non è perché ci parla di amore e sofferenza che la Divina Commedia ha questo potere di essere sempre riletta come realtà contemporanea; è piuttosto perché i temi e i sentimenti più generali sono sviluppati all’interno di una realtà molto specifica, che ci parla delle rivalità fra le diverse città toscane, della politica di una certa epoca, dei fiumi e delle montagne con i loro nomi, una geografia ben determinata, una località particolare. Solo chi, come appunto lo studioso albanese menzionato Ernest Koliqi, sa davvero entrare in questa specificità del testo letterario riesce poi vedere le analogie con un’altra realtà specifica.
Lasciamo per un attimo il campo della letteratura e pensiamo a un altro modo, molto diffuso ai nostri giorni, di uscire dalla nostra sfera limitata per conoscere un altro mondo: viaggiare. Viaggiando, di solito, ci si confronta con cose straniere, cioè strane, e spesso la reazione del viaggiatore è un composto di reazioni negative e positive. Immaginiamo un viaggiatore che va in Romania. Forse pensa che il paesaggio è bello, che le persone hanno un accento strano quando parlano in inglese, che gli piacciono le sarmale, che la mamaliguta è simile alla polenta ecc. Poi incontra un giovane rumeno; si mettono a parlare, trovano che sono cresciuti in modi diversi, con modalità diverse, ma scoprono anche molte cose in comune, che rimpiangono la loro infanzia, le prime esperienze con le ragazze, l’amore per una donna, le sofferenze per l’innamoramento e così via. Ma quanto avrà capito davvero il nostro viaggiatore della realtà romena del suo interlocutore? E quanto avrà capito dell’essenza di questi temi universali, l’infanzia, l’amore, la sofferenza, la morte, se non ha visto come queste esperienze, sia del rumeno, sia sue, sono state vissute in un contesto unico, specifico? L’essenza di un concetto, incluse la sua generalità e universalità, non si può mai capire senza aver penetrato a fondo il suo radicamento nella specifica concretezza del reale. L’amore, per prendere un esempio, come idea, esperienza, universalmente umana, non si può mai intuire e comprendere senza aver conosciuto, direttamente o mediato attraverso una esperienza altrui l’amore del deserto, l’amore urbano, l’amore nato fra lo splendore e la freddezza di una neve interminabile.
Per dare un’idea di queste specificità e concretezze servono le immagini, serve la letteratura.
Torniamo dunque alla letteratura, al bisogno di entrare nella specificità di un testo per ricavarne l’universalità. Torniamo a Dante. La prima cosa che resiste all’idea di universalità è la lingua. Certo che ci sono le traduzioni, ma, come diceva il poeta greco Seferis, ma anche tanti altri, per capire davvero la Divina Commedia uno deve conoscere l’italiano. Kadaré paragona l’intensa, quasi amorosa relazione che Dante ha con la lingua italiana con l’idillio misterioso che unisce l’autore con la sua Beatrice.
Conoscere la lingua originale di un testo letterario, anche il contesto storico della sua produzione, tutti i dettagli precisi che permettono a un’opera letteraria di nascere è soprattutto il compito della filologia. Due esempi di filologi in cui la vastità del sapere e l’ampiezza dell’erudizione venivano accompagnate da una grande sensibilità ed intuizione sono i romanisti tedeschi Erich Auerbach e Ernst Curtius. Da loro si può imparare come comprendere un testo nella sua realtà concreta, dalla prospettiva del suo tempo e del suo autore. Come dice Edward Said, la conoscenza della lingua e il sapere storico però non sono mai sufficienti. Il presupposto più importante, sempre secondo Said, consiste nel lasciarsi coinvolgere empaticamente e soggettivamente di un testo. Questo per Auerbach era il principio di empatia. Per Auerbach una filologia che si occupa di letteratura mondiale è inconciliabile con l’alienazione e l’ostilità verso un tempo e una cultura diversi, ma presuppone uno spirito di generosità.
Ovviamente, non tutti possiamo essere dei filologi eruditi. Ma se pensiamo a Goethe che, invecchiando, si interessò sempre di più ad altre culture, prima la Persia e l’Islam e poi la Cina, possiamo vedere come lui, senza imparare la lingua straniera né poter viaggiare, si avvicinò alla letteratura. Prendiamo l’esempio della letteratura cinese della quale, quando ormai aveva già più di 60 anni, si voleva occupare. Prima studiò la storia, la geografia, lesse i rapporti storici dei viaggiatori come Marco Polo, dei missionari, dei diplomatici. Poi andò da un orientalista e cercò di imparare a disegnare qualche ideogramma cinese per poter entrare nello spirito della lingua. Solo dopo cominciò a leggere i testi cinesi, ovviamente non nella lingua originale, ma in inglese, perché in tedesco non esistevano traduzioni. Successivamente Goethe tradusse delle poesie cinesi in tedesco (sempre partendo da traduzioni inglesi). L’ultimo passo, quasi 20 anni dopo, quando Goethe ormai era quasi ottantenne, fu la composizione di un ciclo di poesie con motivi cinesi chiamato “Stagioni e giornate cinesi-tedesche”. Questo titolo, come il titolo del libro di poesie di Goethe influenzato dai versi persiani di Hafiz, “Il Divano occidentale-orientale”, ci indica un altro modo in cui la letteratura può essere interculturale: non solo come un intreccio di luoghi, non solo come specchio per altre culture, ma direttamente come dialogo e mediazione.
4. Letteratura e immigrazione
All’inizio parlavo degli intrecci di luoghi nei testi di letteratura ed anche nell’atto di scrivere e leggere. C’è ancora un altro modo in cui diversi luoghi si possono incontrare in un testo. Prendiamo l’esempio del giovane scrittore angolano Ondjaki, anche se si potrebbero menzionare tanti altri esempi. Lui, angolano, scrive in portoghese, dunque solo prendendo un suo libro in mano abbiamo subito sotto gli occhi la storia del suo paese, della colonizzazione da parte dei portoghesi. Leggendo capiamo subito un aspetto doloroso di questa, di ogni colonizzazione: leggiamo un portoghese, ma un portoghese diverso da quello parlato a Lisbona, a Faro o in qualsiasi altra città del Portogallo, una lingua adottata per forza, poi sicuramente anche con amore, da un popolo di lingua originariamente diversa, leggiamo la lingua letteraria di Ondjaki e non c’è nemmeno bisogno di entrare nella trama vera e propria del libro, anche se questa poi ci racconterà più della storia angolana, per capire in un lampo dalla particolarità del suo uso della lingua la complessa relazione fra colonizzatori e colonizzati, la sofferenza della sconfitta e il trionfo della vittoria nell’essersi appropriato della lingua e del tesoro letterario degli oppressori, di averli fatti suoi, e di averli poi, con i suoi libri, ridati al Portogallo, agli atri paesi lusitani, infine a tutto il mondo.
Ci sono inoltre tante parole inserite nei testi di Ondjaki prese dalla tradizione orale, dalla lingua africana; parole che ci ricordano le radici, la materialità, concreta e propria dalla quale nascono le case, le persone, le piante, il tessuto vero,tutta la vita con il suo passato più recente e lontano, arcaico, con i suoni anticipatori del futuro, la realtà specifica africana da salvaguardare e da ricostruire.
In una sola frase di un testo letterario possiamo avere così una densità di intercultura come difficilmente si può avere in un altro modo. Una città può essere multietnica, può rivelare segni di culture diverse. Possiamo passare da un Kebab in una città tedesca, possiamo visitare una moschea trasformata in cattedrale cattolica in Spagna, possiamo entrare in un giardino inglese a Firenze, ma comunque nella spazialità urbana non troveremo la stessa densità di un testo letterario che può allo stesso tempo essere un’esplosione e una profonda meditazione, un saltare in aria e uno scavare, uno sprofondarsi e immergersi negli strati più profondi.
Mi viene in mente però una analogia per quanto riguarda questa densità interculturale dei testi letterari. Quando cammino per le strade di Firenze, non sono tanto i molteplici segni di influenze lasciate da culture straniere negli edifici che mi fanno pensare a un intreccio di luoghi denso ed intenso come nella letteratura; è quando vedo i tanti visi dei migranti che vivono a Firenze e mi chiedo della loro vita, del loro passato, come sarà stato il loro percorso fino ad arrivare in questa città rinascimentale, in questa città di Dante, allora che vedo un’analogia. E penso che ci sono, un po’ semplificando, due categorie di stranieri che vengono a Firenze. Ci sono il tedesco o l’americano che arrivano comodamente in aereo, frequentano una scuola di lingua, imparano l’italiano per poter leggere la Divina Commedia nell’originale. E ci sono coloro che vengono dall’altra sponda del mare, dopo aver attraversato il deserto, terreno ostile, tanti pericoli, che vengono per poter mangiare e lavorare, per un futuro con più sicurezza materiale, che vengono o cercano di venire dopo aver speso tutti i loro soldi per un passaggio miserabile per mare, soffrendo per giorni e notti il freddo e il caldo, la fame e la paura, che rischiano di morire pur di arrivare in Italia e in tanti muoiono.
E mi viene la voglia di creare, di pensare a un mondo dove le cose fossero al rovescio, dove uno rischiasse il tutto per tutto, con una volontà ferrea, gettandosi in mare, cercando di arrivare a tutti costi a Firenze, per raggiungere un unico scopo, l’ideale della sua vita, un’idea così forte come lo era Beatrice per Dante: cioè di rischiare la propria vita per poter leggere la Divina Commedia nell’originale.
Nella lingua originale e trovandosi nella città d’origine dell’autore e del testo, immergendosi nei vicoli scuri, medievali di un tempo lontano, nei cerchi formati dalle varie città toscane, muovendosi contemporaneamente nei cerchi del testo per unire con la sua lettura passato e presente, il proprio con lo straniero, e realizzando allo stesso tempo che qualcosa resterà sempre fuori da questa unità, ci rimarrà ciò che è sconosciuto e inconoscibile, perché troppo lontano, troppo straniero, di una cultura, sia passata che presente, troppo diversa e che quindi non può essere omologata, ma solo riconosciuta e rispettata come tale.