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Prof.ssa Camilla Perrone |
intervista di Fabrizio Ulivieri
Lei professoressa, rispetto al modo di vedere di tanti colleghi italiani, denuncia una visione internazionale nel modo di approcciare le tematiche dell'architettura. Come nasce questa sua disposizione internazionale?
Il confronto e lo scambio di conoscenze sono da sempre una delle mie priorità.
Credo che il tema della diffusione della conoscenza debba tornare ad essere centrale nella formazione accademica del secondo e del terzo ciclo, nel campo dell’architettura e più in generale degli studi urbani.
L’internazionalizzazione è un tema spesso sottovalutato oppure interpretato in termini di mobilità di docenti e studenti. Credo naturalmente che garantire questo tipo di scambi sia prioritario per qualunque università. Accordi internazionali, programmi Erasmus, di Teaching mobility ecc… sono un obiettivo da perseguire e un settore della governance accademica da sostenere e implementare. Ritengo tuttavia che l’internazionalizzazione debba esprimersi ed essere perseguita attraverso scambi effettivi di conoscenze, attraverso la condivisione e la diffusione delle culture e delle tradizioni disciplinari in un equilibrio che non schiacci l’intera formazione su modelli culturali main stream.
Da alcuni anni cerco di contribuire al raggiungimento di questo obiettivo in molti modi, costruendo in prima persona occasioni di confronto interdisciplinare, interculturale, dinamico e aperto, offrendo concrete opportunità di apprendimento dottorale a studenti di altri paesi del mondo che arricchiscono la nostra offerta formativa e la ricerca.
Seguendo questa Sua visione internazionale come sta organizzando la sezione di Urbanistica e pianificazione del territorio del Dipartimento di Architettura?
Sul piano tecnico/organizzativo, ho accettato di svolgere per la Scuola di Architettura, il compito di delegato LLP Erasmus lavorando alla costruzione di accordi con Atenei e Università Europee, favorendo la mobilità degli studenti, e rintracciando fondi per l’integrazione delle borse, spesso purtroppo troppo esigue.
Sul piano scientifico ho strutturato una solida collaborazione con l’Aesop (Association of European Schools of Planning) che consente ai nostri studenti (di secondo e terzo ciclo, studenti di master e di dottorato) di confrontarsi in un contesto internazionale sia sul piano dei temi che delle modalità di comunicazione e scambio di conoscenze.
Sono rappresentante Nazionale per l’associazione e lo scorso luglio ho vinto un premio internazionale proprio da parte di questa associazione, Aesop Excellence in Teaching Award, per un corso di dottorato organizzato a scala nazionale, con modalità e su temi ritenuti di interesse internazionale.
Ho svolto inoltre periodi di formazione e di insegnamento presso università straniere, tra cui la York University di Toronto e la Eberhard Karls Universität di Tübingen, dove ho sempre costruito rapporti internazionali per la ricerca e la formazione.
Il mio impegno futuro sarà orientato verso la costruzione di programmi di studio in collaborazione con altre università, anche emergenti, nel mondo in una prospettiva worldly.
Quanto l'università italiana avrebbe bisogno di più respiro internazionale?
Ritengo che questo momento di crisi mondiale abbia esasperato molto alcune situazioni difficili della macchina accademica italiana.
Come ogni attività importante, anche l’internazionalizzazione ha sempre avuto bisogno e nello steso tempo ha sempre sentito la mancanza di un investimento ministeriale importante.
Sono molti i programmi che possono essere intrapresi, soprattutto a livello europeo, ma da sempre questi da soli, non sono sufficienti alla costruzione di un programma strutturato di internazionalizzazione capace di offrire opportunità e contesti di ricerca e di studio competitivi. Almeno nel settore degli studi urbani, sono davvero poche le eccellenze che possono annoverarsi in questo ambito.
Alcuni centri di ricerca e i politecnici italiani hanno sicuramente fatto passi avanti.
Direi che nel tempo, nonostante le correnti mondiali spingano verso flussi e scambi di ogni tipo, il mondo accademico è paradossalmente meno internazionalizzato di 40 anni fa.
Gli studenti hanno poche opportunità, conoscono poche lingue. Oggi è possibile trovare anche dei docenti che hanno a stento preso parte a qualche conferenza internazionale e che difficilmente si confrontano con contesti scientifici ampi a diversificati. I localismi disciplinari, scientifici e didattici emergono paradossalmente con più vigore in questa stagione accademica che nelle precedenti.
Non credo sia possibile uscire dalla crisi, anche epistemologica, che stiamo attraversando adesso, senza immaginare una diversa organizzazione della formazione e una selezione dei docenti basata anche sulla loro capacità di intercettare domini culturali esogeni al proprio contesto.
Firenze e la globalizzazione. Firenze rappresenta l'idea globale del Rinascimento e probabilmente è rimasta legata nel tempo a quell'idea, senza evolversi. Come si potrebbe rilanciare una Firenze globale, internazionale e competitiva almeno da un punto di vista urbanistico, in tempi moderni?
Firenze è una città ricca di contraddizioni. La sua storia lo dimostra: aperta e vibrante a momenti alterni della storia del mondo.
Chiusa e reazionaria, incapace di cogliere il valore di personalità scientifiche e accademiche di rilievo, fino a mandarle via (penso ad alcuni docenti della nostra Facoltà ad esempio come Benevolo).
Straordinaria nell’insegnare al mondo nuove sensibilità culturali e artistiche. Necessaria alla cultura italiana in sé.
Oggi il suo patrimonio artistico, urbano e territoriale rappresenta una sfida per ogni architetto e studioso di urbanistica del mondo. Come fare a conservarla e cosa fare per rinnovarla?
Difficile rispondere. Possiamo forse dire che Firenze rappresenti sicuramente una sfida come bene da tutelare e da conservare; una sfida come bene comune da rinnovare e rigenerare perché possa essere consegnato alle generazioni future.
Firenze è una città del passato, forse una capitale di senso civico e urbanità riconosciuta in tutto il mondo. Niente di tutto questo avrebbe però molto senso, se non la si immaginasse anche come città del futuro per i suoi abitanti di oggi e di domani. E quindi una città viva, aperta al mondo e alle sue domande.
È una città internazionale per eccellenza dal punto di vista dell’attrattività come museo del mondo. È la città italiana più chiusa che abbia mai conosciuto o in cui abbia mai vissuto dal punto di vista della disponibilità al confronto e a mettersi in discussione, nelle aule accademiche e nei tavoli dell’amicizia.
Introdurre un approccio comparativo sostenuto dalla costruzione di programmi di studi, di formazione e ricerca, sarebbe a mio avviso una strada percorribile e necessaria (quanto urgente).
Lo skyline della Firenze che tutti conosciamo è fonte ispirativa di bellezza. Chi viene a Firenze respira bellezza, viene ispirato alla bellezza. Come si potrebbero riassumere tematicamente i volumi e le forme di questa bellezza? I principi architettonici che hanno ispirato i palazzi della Firenze che tutti conosciamo?
Potremmo forse definire Firenze come un’opera d’arte costruita con l’impegno, talvolta l’audacia di committenti e artisti coraggiosi, e soprattutto con l’intelligenza collettiva che è capace di trasformare lo spazio in luoghi destinati a durare e a costituite il patrimonio culturale e urbano di cui tutti noi oggi godiamo.
Si intrecciano in un crogiolo di sorprese incastonate l’una nell’altra secondo regole alternativamente progettate o auto-determinate, esempi di rappresentanza sociale, civile, religiosa, privata; espressioni delle gerarchie del potere civile e del potere religioso. Firenze è però stata anche una città dell’accoglienza che nella rete dei suoi conventi (si pensi alla disseminazione di chiese e conventi nell’Oltrarno che hanno storicamente ospitato giovani donne rifiutate dalla società, poveri, senza tetto, viandanti e recentemente anche molti immigrati e rifugiati), e delle strutture di assistenza (si pensi in questo caso all’Ospedale degli Innocenti). E ancora è stata specchio dell’avvicendarsi di culture e codici artistici.
I principi architettonici che tutti noi siamo ormai in grado di riconoscere nella grande lezione del rinascimento non basterebbero da soli a spiegare la “bellezza” di Firenze. Grandi mobilitazioni sociali e civili l’hanno resa tale, basi ricordare fra tutti, il grande impegno collettivo nella ricostruzione di Firenze e nella rinascita dopo l’alluvione del 1966.
Firenze manca di aree verdi, come si può ovviare?
In realtà a Firenze le aree verdi non mancano. Ce ne sono molte, anche in centro. Sono davvero belle, interessanti, e spesso sono il completamento dei palazzi che compongono il tessuto del centro storico. Sono però rinchiuse nelle corti dei palazzi dei conventi. Sono patrimonio privato contenuto e nascosto, godibile solo dall’alto.
A mio avviso Firenze è una città che dovrebbe imparare ad aprirsi, a regalarsi, ad essere attraversata in tutto il suo spessore.
Anche solo immaginare una sistema di connessione e attraversamento di tutti i giardini privati dei grandi palazzi del centro, regalerebbe alla città una dimensione molto vivibile, urbana, quotidiana e al contempo internazionale. Firenze tornerebbe a essere una città per i suoi abitanti e non solo per i turisti. Firenze, almeno la Firenze riconosciuta come patrimonio culturale, ha rinunciato a riconoscere il diritto alla città dei suoi abitanti per regalarsi sempre più spesso al mercato del turismo globale.
Firenze è una città assediata dal turismo. Quanto l'urbanista deve tenere in considerazione questo fatto per progettare qualsiasi intervento urbanistico all'interno di questa città?
Sicuramente una gestione diversa dello spazio pubblico, un disegno diverso delle sue piazze e la costruzione di nuove reti della tranvia, libererebbe il centro dalla schiavitù dei mezzi degli autobus e delle macchine per regalare spazi verdi e nuovo spazio pubblico rigenerato ai suoi abitanti.
Che significa innovare e creare oggi in architettura?
Non parlerei solo di architettura. La città è un sistema complesso in cui si intrecciano dinamiche ed esigenze diverse. Direi che una risposta dell’architettura dovrebbe forse essere oggi quella di mettersi in gioco con riferimento all’organismo che la contiene ponendosi come obiettivo quello di realizzare spazi in grado di intercettare i bisogni e le esigenze della pluralità degli stili di vita e delle culture che oggi si intrecciano nelle città. potenzialmente utilizzabili da più destinatari. DiverCity è il gioco di parole che amo utilizzare per definire un orizzonte immaginifico verso cui orientare tutti gli sforzi, in modo congiunto, dell’architettura, dell’urban design e del regional design.
Ripensare le scale dell’architettura è una priorità di questo momento storico: “abbiamo bisogno oggi di una “architecture enabling”, di un’architettura che sia capace di offrire opportunità, il maggior numero possibile di opportunità, per i suoi fruitori.
Non sarà forse il segno creativo di un maestro, la risposta innovativa che dovremmo aspettarci, sarà piuttosto l’intuizione produttiva di una collettività, che indica la via per un’architettura diversa. La creatività e l’innovazione in architettura oggi forse non sono soltanto, o non sono più solo da ricercarsi nel genio artistico di uno solo, ma nella capacità generatrice di chi costruisce e produce il proprio spazio di vita.
La sezione di Urbanistica e pianificazione del territorio del Dipartimento di Architettura di Firenze ha in progetto eventi nazionali ed internazionali? Quali?
Sono in realtà molte le attività internazionali intraprese dal dipartimento di architettura e coinvolgono molti paesi del mondo. Esse includono accordi culturali, programmi di students mobility, conferenze e seminari, co-tutoring di tesi di dottorato ecc…
Segnalo in particolare un’iniziativa organizzata nell’ambito di un progetto ministeriale Prin, che co-coordino con altri colleghi, e che si occupa delle nuove sfide delle città contemporanee (definite territori post-metropolitani). Si tratta di una conferenza internazionale (si terrà il 14 marzo in via Micheli 2) nella quale ci confronteremo con esperti delle dinamiche di urbanizzazione di suburbanizzazione in tutto il mondo e delle possibile strategie che è possibile intraprendere per rendere le nostre città sostenibili, vivibili (e forse anche belle).
Un consiglio per un giovane che si accinge a diventare architetto.
Immaginare l’architettura come l’esito di un processo interattivo che include molti interlocutori, valori, culture, storie diverse.
Ancora, immaginarsi come professionisti riflessivi in grado di cogliere stimoli e creatività nelle dinamiche di co-produzione dello spazio dell’abitare agite dalla pluralità degli abitanti contemporanei.